ORFEO RIVIVE A GENOVA

Quello di mercoledì, 11 maggio 2016 alla Fiera del Mare, è stato un “Orfeo” vaneggiante, frenetico, estatico, iniziato ai Misteri di Samotracia, rapito dall’esperienza nell’altro Mondo; come Ulisse, fuggito dalla propria patria, ma soprattutto dalla consorte Penelope, mettendoci ben dieci lunghi anni per tornare a casa e responsabilizzarsi come marito, allo stesso modo l’Orfeo Rave ha paura più dell’amore che della morte.
Diretto dal regista Emanuele Conte e dall’ideatrice e coreografa Michela Lucenti, col suo Balletto Civile, in collaborazione col Teatro della Tosse, “Orfeo Rave” è un meraviglioso spettacolo itinerante, con molteplici scenografie ed ambientazioni realizzate con fervida fantasia ed acuti escamotages. Nello spettacolo, che è reso quasi in chiave femminista, Michela Lucenti narra, con voce vigorosa, le vicende rocambolesche del tragico amore di Orfeo per la bella ninfa Driade Euridice.
La favola di Orfeo è attestata in età antichissima – molti sono stati coloro che se ne sono occupati iconograficamente e letterariamente – ed ha persino influenzato la nascita del Cristianesimo primitivo e le sue iconografie (“Buon pastore seconda metà del III secolo, Catacombe di Priscilla, Roma”), sino ad arrivare al movimento artistico del primo decennio del Novecento, il Cubismo Orfico, il cui gruppo- chiamato la Section d’Or- aveva l’obiettivo di rappresentare dei quadri che avessero rigorosi rapporti geometrici tenendo comunque conto della vitalità del colore presente in essi, come parte integrante e protagonista degli stessi.
Quello della Compagnia del Balletto Civile è un Orfeo rivisitato nella sua trama più classica, ossia quella che ci racconta Virgilio nel I sec. a.C. per l’ascesa al trono di Augusto, nel quarto libro delle Georgiche, e la prima realizzazione in volgare di Angelo Poliziano scritta, in pochissimi giorni, nel 1480 per il Duca di Mantova, in cui l’opera risulta fortemente influenzata dalle idee della cerchia neoplatonica in voga allora.
Orfeo Rave viene affrontato in chiave moderna, quasi psichedelica, con accenti derivanti dall’immaginario abbacinante ed allucinante, ormai collettivo, riecheggiante la fantasia di Tim Burton.
La ninfa Euridice, moglie di Orfeo, rifiuta le avances del pastore Aristeo – che nelle Georgiche Virginiane viene danneggiato dal fallimento dell’apicoltura – e fuggendo viene morsa da una serpe, perdendo la vita. Orfeo per mesi piange il suo amore, dopodiché decide di recuperare la sua amata andando a scoprire il mondo dell’aldilà.

Orfeo, figlio di Eagro e della più alta delle nove Muse, Calliope, proviene dalla Tracia, che occupava il nord del Peloponneso. L’eroe è il cantore per eccellenza, il musico e il poeta che incanta ogni creatura, vivente e non vivente, dotata di ogni beltà o mostruosa; per questo è anche ben visto dal dio Apollo, dio del sole e delle arti. Orfeo in questo spettacolo viene interpretato in modo originale da un attore di colore, non parlante, ma solo cantore e soprattutto ballerino, come già è accaduto nel 1959, nello ”Orfeo negro” di Marcel Camus, trasposizione del mito, in età moderna, scritta in una pièce teatrale da Vinicius de Moraes.
L’eroe suona la lira per Virgilio, la cetra per Poliziano; in questa opera suona un altro strumento di fabbrica primitiva forse africana, probabilmente la Kora, un’arpa liuto. Il dialogo tra i personaggi è ridotto all’osso, all’essenziale per dar giusto risalto all’effetto scenografico fortemente suggestionante e coreografico della messa in scena: corpi animati da una forza misteriosa e inquietante che si incontrano e si scontrano alla luce di immagini proiettate su grandi schermi; luci e spettatori stessi diventano attori della vicenda medesima. E’ uno spettacolo nello spettacolo e lo stesso spettatore viene coinvolto attivamente nelle atmosfere infernali dell’Ade, circondato dai fiumi dell’aldilà, che in questo caso è il mare calmo del Porto di Genova.

Orfeo col suo canto riesce a commuovere gli spettatori e l’intero oltretomba, Caronte, Cerbero, Persefone e Ade stesso, che decide di lasciargli la possibilità di portare con sé, un’altra volta alla vita, la sua amata a patto che non si fosse girato per tutto il tragitto per guardarla. Per Emanuele Conte Orfeo è un uomo che – come molti – ha paura di scegliere l’amore fino in fondo e per questo si volge verso la sua amata, decidendo di lasciare la sua consorte e il suo dolore nell’Ade. Non ha il coraggio di amare una donna fino in fondo; questa debolezza, come nella versione più moderna di Poliziano, gli procura l’odio delle Baccanti che lo faranno a pezzi, staccandogli la testa e giocandoci come fosse una palla. Il “Rave” prende forma in un balletto quasi infernale nonostante non sia più ambientato nell’oltretomba.

 

Dott.ssa Federica Burlando Burani

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